Afghanistan, l'anno zero di una tragedia

il Manifesto,
19 Ottobre 2003
JOHN PILGER

In una vita spesa in giro per i luoghi del mondo in tumulto non avevo mai visto niente di simile. Sembra uno scorcio di Dresda nel '45, contornata da macerie anziché da strade, dove la gente vive in edifici crollati come vittime di un terremoto in attesa dei soccorsi. Niente luce, solo apocalittici fuochi che bruciano tutta la notte. Un grande cronista di guerra per la prima volta a Kabul

Alla conferenza del partito laburista dopo l'attacco dell'11 settembre, Tony Blair fece il memorabile annuncio: «Al popolo afgano facciamo una promessa: noi non ce ne andremo...se ci sarà un cambiamento del regime dei taleban, lavoreremo insieme a voi per garantire che il nuovo governo abbia la più ampia base di appoggio possibile, unisca tutti i gruppi etnici e offra una qualche via di uscita dalla povertà della vostra misera esistenza». Le sue parole riecheggiavano quelle di Bush che alcuni giorni prima aveva detto: «Il popolo afgano oppresso imparerà a conoscere la generosità dell'America e dei suoi alleati. Mentre bombarderemo obiettivi militari, lanceremo anche cibo, medicinali e altro per gli uomini, le donne e i bambini dell'Afghanistan che stanno soffrendo e morendo di fame. Gli Stati uniti sono amici del popolo afgano». Quasi ogni parola detta era falsa. Le loro dichiarazioni di impegno erano crudeli illusioni che servivano a spianare la strada per la conquista sia dell'Afghanistan che dell'Iraq. Mentre si chiarisce la natura illegale dall'occupazione angloamericana dell'Iraq, il disastro dimenticato dell'Afghanistan, la prima «vittoria» della «guerra al terrorismo», è forse un tributo al potere ancora più scioccante.

Era la mia prima visita in Afghanistan. In una vita spesa in giro per i luoghi del mondo in tumulto non avevo mai visto niente di simile. Kabul è uno scorcio di Dresda nel ’45, contornata da macerie anziché da strade, dove la gente vive in edifici crollati, come vittime di un terremoto in attesa dei soccorsi. Niente luce né riscaldamento: solo apocalittici fuochi che bruciano tutta la notte. Quasi non c'è muro in piedi che non mostri le ferite di tutte le possibili armi da fuoco. Automobili giacciono rovesciate sulle rotatorie. I pali elettrici che dovevano servire per una moderna flotta di tram sono accartocciati come fogli di carta; gli autobus, accavallati uno sull'altro, ricordano le piramidi di macchine erette dai Khmer rossi per celebrare l'Anno zero (del loro regime ?).

C'è una sensazione da Anno zero in Afghanistan. I miei passi risuonano in quello che fu un tempo il grandioso Dilkusha palace, costruito nel 1910 su progetto di un architetto inglese, celebrato per gli scaloni circolari, le colonne corinzie e gli affreschi su pietra di biplani. Ora è una carcassa tenebrosa da cui emergono come fantasmi bambini esili come giunchi, offrendo cartoline ingiallite dell'albergo com'era trent'anni fa, un pretenzioso edificio in fondo a un viale che avrebbe potuto essere una replica del Mall londinese, addobbato di bandiere ed alberi. Sotto la curva dello scalone c'erano il sangue e i brandelli di carne di due persone saltate in aria per una bomba il giorno prima. Chi erano? Chi aveva messo la bomba? In un paese in balia dei signori della guerra, molti dei quali conniventi con il terrorismo, la domanda è surreale.

Poco lontano, uomini con tute blu avanzano rigidi in fila indiana: sono sminatori. Qui le mine sono comuni come i rifiuti e si calcola che uccidano o mutilino una persona ogni ora, tutti i giorni. Di fronte a quello che era il cinema principale di Kabul e che ora è uno scheletro art deco, c'è una rotonda piena di traffico con manifesti che avvertono che là intorno sono sparse bombe «gialle e provenienti dagli Usa». I bambini ci giocano qui, rincorrendosi fra le ombre: un adolescente li guarda, ha un troncone di gamba e gli manca metà viso. Nelle campagne la gente confonde ancora i contenitori delle bombe a grappolo con i pacchi gialli di generi di conforto lanciati dagli aerei statunitensi quasi due anni fa durante la guerra, dopo che Bush aveva vietato ai convogli di aiuti internazionali di entrare dal Pakistan.

Più di 10 miliardi di dollari sono stati spesi in Afghanistan dal 7 ottobre 2001, in massima parte dagli Stati uniti e l'80% è servito a pagare il bombardamento del paese e a foraggiare i signori della guerra, ex-mujahedin auto-ribattezzatisi «Alleanza del nord». Gli americani hanno dato a ciascun signore della guerra decine di migliaia di dollari in contanti e camion carichi di armi. «Rifornivamo tutti i comandanti che potevamo», ha dichiarato un agente della Cia al Wall Street Journal durante la guerra. In altre parole, li pagavano perché smettessero di combattersi fra loro e combattessero invece i taleban. Erano quegli stessi signori della guerra che, in lotta per il controllo di Kabul dopo il ritiro dei sovietici nel 1989, hanno ridotto la città in polvere uccidendo 50.000 civili. Grazie agli Stati uniti, il controllo effettivo del paese è stato consegnato a molti degli stessi mafiosi e ai loro eserciti privati che comandano con il terrore, l'estorsione e il monopolio del commercio dell'oppio da cui proviene il 90% dell'eroina in vendita per le strade inglesi. Il governo post-talebano è meramente di facciata: non ha soldi e il suo mandato arriva a malapena alle porte di Kabul, nonostante le pretese di democrazia quali le elezioni programmate per l'anno prossimo. Omar Zakhilwal, funzionario del ministero degli affari rurali, mi ha detto che al governo arriva meno del 20% degli aiuti all'Afghanistan - «non abbiamo neppure abbastanza denaro per gli stipendi, figuriamoci per la ricostruzione», ha detto. Il presidente Harmid Karzai è un impiegato di Washington che non si muove se non accompagnato dalla sua posse di guardie del corpo delle forze speciali Usa.In una serie di rapporti eccezionali, l'ultimo pubblicato in luglio, Human Rights Watch ha documentato le atrocità «compiute da banditi e signori della guerra portati al potere dagli Stati uniti e gli altri membri della coalizione dopo la caduta dei talebani nel 2001», sostenendo che costoro tengono «fondamentalmente il paese in ostaggio». Il rapporto denuncia l'esistenza di eserciti e truppe di polizia agli ordini dei signori della guerra che rapiscono impunemente abitanti dei villaggi tenendoli in prigioni non ufficiali in attesa del riscatto; denuncia inoltre lo stupro diffuso di donne ragazze e ragazzi, estorsioni rapine e omicidi arbitrari come pratiche di routine. Le scuole femminili vengono bruciate. «Dato che un obiettivo dei soldati sono le donne e le ragazze», continua il rapporto, «molte non escono più di casa e non possono andare né a scuola né a lavorare».A Herat, una città nell'ovest del paese, ad esempio, le donne che guidano vengono arrestate, non possono viaggiare con uomini che non siano loro parenti, neppure su un taxi se l'autista non è un loro parente. Se sono arrestate vengono sottoposte ad un «test di castità» con spreco di servizi medici preziosi ai quali, sostiene Haman Rights Watch, «le donne e le ragazze non hanno quasi accesso, specialmente a Herat dove meno dell'1% delle donne partorisce con assistenza professionale». Secondo l'Unicef il tasso di mortalità delle madri durante il parto è il più alto del mondo. Herat è in mano al signore della guerra Ismail Khan, pubblicamente approvato dal segretario alla difesa Usa Rumsfeld «come persona accattivante....riflessiva, misurata e sicura di sé».

«L'ultima volta che ci siamo visti in questo luogo», ha detto Bush nel suo discorso sullo stato dell'unione dell'anno scorso «le madri e le figlie dell'Afghanistan erano prigioniere nelle loro case, impedite di andare al lavoro o a scuola. Oggi le donne sono libere e fanno parte del nuovo governo del paese. E noi diamo il benvenuto al nuovo ministro agli affari femminili la dottoressa Sima Samar». Si alzò una donna minuta, di mezza età, con una sciarpa sul capo e ricevette un'ovazione molto coreografica. Samar, un medico che nel periodo dei talebani si rifiutò di negare assistenza alle donne, è un vero simbolo di resistenza e l'appropriazione untuosa che ne ha fatto Bush ha avuto vita breve: in dicembre del 2001 Samar partecipò a Bonn alla «conferenza di pace» sponsorizzata dagli Stati uniti dove Karzai fu installato come presidente e tre dei più brutali signori della guerra come vicepresidenti.

Non era ancora svanito l'eco dell'applauso che Samar fu infamata con la falsa accusa di blasfemia e costretta a ritirarsi. I signori della guerra che differiscono dai talebani solo per diversa appartenenza tribale e ortodossia religiosa, non potevano ammettere il benché minimo gesto di emancipazione femminile. Oggi Samar vive nel timore costante per la propria vita, ha due terribili guardie del corpo con armi automatiche, una davanti la porta dell'ufficio e l'altra al cancello esterno e si sposta su un van con i vetri oscurati. «Non ho mai avuto una vita sicura negli ultimi 23 anni», mi ha detto, «ma non ho dovuto mai nascondermi o girare con scorta armata come sono obbligata a fare ora.....Certo, è stata abolita la legge scritta che vietava alle donne di andare a scuola e al lavoro e imponeva loro le regole del vestirsi, ma la realtà è che neppure sotto i taleban c'era la stessa pressione nei confronti delle donne che c'è ora nelle aree rurali».

Forse l'apartheid nei confronti delle donne è stata abolita legalmente ma per il 90% di loro queste «riforme» non sono altro che tecnicismi. Il burqa è diffuso ancora ovunque. Come dice Samar, la condizione delle donne nelle campagne è spesso più disperata ora di prima perché gli ultra-puritani talebani avevano la mano molto pesante con gli stupri, gli omicidi e il banditismo. A differenza di oggi, si poteva viaggiare sicuri in gran parte del paese.

In una fabbrica di scarpe bombardata nella parte ovest di Kabul ho visto la popolazione di due villaggi ammassata e esposta sui pavimenti dei vari piani, senza luce e con un unico rubinetto sgocciolante. Bambini piccoli accovacciati attorno a fuochi accesi in terra vicino a parapetti mezzo sbriciolati. Il giorno del mio arrivo un bambino è caduto ferendosi gravemente. Pane bagnato nel tè è il loro pasto. Hanno nei loro occhi chiari da civetta lo sguardo terrorizzato del rifugiato. Sono fuggiti lì, mi dicono, perché i signori della guerra li derubano costantemente e rapiscono le loro mogli figlie e figli che violentano e restituiscono poi dietro pagamento del riscatto.«Sotto i talebani era come vivere in una tomba ma eravamo sicuri», mi ha detto una militante, Marina, «alcuni dicono che erano persino meglio loro, a dimostrazione di quanto sia disperata la situazione oggi.






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